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"Non importa la meta, ma provare a raggiungerla": intervista a Vasco Brondi, in arte "Le luci della centrale elettrica"

Il cantautore ferrarese venerdì presenta il nuovo album "Terra" al Vidia club di San Vittore

Venerdì al Vidia club di San Vittore arriva Vasco Brondi, in arte Le luci della centrale elettrica, cantautore ferrarese che ha da pochissimo pubblicato il quarto album "Terra".

La cosa che più colpisce del tuo percorso musicale è l'evoluzione che hai fatto durante gli anni: sei partito da un album (bellissimo) voce e chitarra che parlava di Ferrara e dei disagi di un'intera generazione e sei arrivato a un album, "Terra", molto più "sperimentale", sia nei testi che, soprattutto, nelle sonorità. L'evoluzione è venuta in maniera spontanea?
Credo non sia una cosa che davvero si programma, cerco di mettermi sempre nella posizione privilegiata del non avere niente da perdere e vedere cosa succede, in questo caso anche di avvicinarmi a cose che non conoscevo. Aiuta molto avere passato i trentanni: sento una maggiore libertà adesso di quando ho iniziato a venti, mi accorgo che mi è più indifferente l’approvazione degli altri, la loro comprensione o incomprensione, e questo aumenta la libertà. Non la libertà di fare qualunque cosa a caso ma la libertà di essere come si è.

C'è chi avrebbe voluto che Terra fosse un disco di ritorno alle origini, voce e chitarra. Credi che potrà mai esserci una sorta di "involuzione", un ritorno al passato, nella tua musica?
Quando inizio un nuovo lavoro cerco di essere il più aperto possibile, non mi impongo una direzione o un’altra, quindi potrebbe succedere, ma anche in quel caso sarebbe un’evoluzione, non un tornare indietro. La cosa importante che sento per ogni disco è il "togliere uno strato in più da me" e andare più nel profondo. 

In Terra ci sono sonorità etniche che mancavano nei tuoi precedenti album: da dove nascono?
L’idea era quella di fare un disco che fosse come una sorta di cartolina da spedire nello spazio da me e dall’Italia di adesso, come se fosse un modo di presentarsi a chi non sa niente di questo posto e di questo tempo. Per questo mi viene da definirlo un disco etnico ma di un’etnia immaginaria che è quella italiana di adesso, la nostra identità in transizione. Musicalmente si mischiano tamburi africani e melodie balcaniche, distorsioni e canti religiosi, techno araba e ritmi sudamericani. Non è un disco di world music, è un racconto corale, racconta la realtà che c’è guardandosi dentro e attorno.

Il disco è stato prodotto da Federico Dragogna (chitarrista dei Ministri) e c'è anche un apporto di Daniel Plentz (musicista dei Selton), due gruppi diversissimi sia tra di loro che dalla tua musica: cosa nasce dall'incontro di tre musiche e tre background musicali così diversi?
Avevo in mente un suono diverso dal precedente album ma sapevo che avrei potuto svilupparlo sempre con Federico. Per “Costellazioni” (il precedente album, ndr) mi sono rivolto a Fede quando avevo già pronto tutto, su questo invece abbiamo lavorato assieme sin da subito. Gli avevo dato quest’idea di un disco che fosse un po’ una cartolina da spedire nello spazio, dove nessuno sa niente del posto da cui arriva, e che quindi doveva descrivere me stesso e i miei luoghi. Lui è bravissimo, il migliore produttore artistico che si possa avere, ha un grande talento. Abbiamo capito che era importante che questo disco fosse pieno di ritmo, quindi abbiamo chiesto a Daniel Plentz, che è il percussionista dei Selton, di darci una mano. Lui è stato fondamentale perché ci ha fatto uscire da certi schemi, miei e di Federico, che ci tenevano legati al rock, al punk, al grunge, che poi è la musica con cui siamo cresciuti. A Daniel invece portavo un pezzo grunge urlato e lui lo faceva diventare un flamenco (ride), gli veniva in automatico, anzi faceva più fatica a fare un 4/4 dritto. Questo ha sicuramente aiutato a portare il disco da un’altra parte.

In "Profondo Veneto" canti l'accettazione del fallimento lavorativo, un argomento molto attuale. Come si sopravvive alla sconfitta, alla mancanza di lavoro che uccide ogni aspirazione? Davvero "c'è solo da esistere"?
È una canzone importante per me, è vero, parla di una ragazza che ritorna a casa da Milano nel suo paesino nel profondo Veneto. Un ritorno a casa “sconfitta e contenta”. Parla del crollo delle illusioni, che può essere anche molto benefico perché quello che ci lascia è il senso della realtà, il sesto senso più importante che c’è. Ci fa uscire da quella corsa compulsiva senza senso e senza fine a cui ci obblighiamo a partecipare, di obiettivo in obiettivo senza in realtà realizzarci per niente - e sotto sotto lo sappiamo benissimo. Viene da dire "cosa importa la meta se l’importante è camminare piano verso quella meta, godersi il viaggio". In questo senso godersi l'esistenza.

Un artista con cui ti piacerebbe collaborare?
Continuo ad ascoltare le stesse cinque cose che ascoltavo a quindici anni anche adesso che si può sentire tutto in ogni situazione con le varie piattaforme. Per me restano importanti i CSI, i CCCP, De Gregori, Jovanotti, gli Afterhours, i Baustelle e sono riuscito a collaborare con loro, le nostre strade si sono unite da sole. Gli altri ascolti fondamentali per questo disco sono stati Battiato e Enzo Avitabile e spero in futuro di incontrare musicalmente anche loro. 

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