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Cronaca

Centosette e non sentirli: compleanno per la più anziana di Cesena

Con i suoi 107 anni è la "più grande dei cesenati", anche se non ama sentirselo dire. E' Renata Bianchi, nata a Cesena il 16 ottobre dell'ormai lontano 1906, che mercoledì ha festeggiato questo compleanno da record

Con i suoi 107 anni è la "più grande dei cesenati", anche se non ama sentirselo dire. E' Renata Bianchi, nata a Cesena il 16 ottobre dell’ormai lontano 1906, che mercoledì ha festeggiato questo compleanno da record circondata dai numerosi nipoti e pronipoti. A loro si sono uniti due ospiti speciali: il Sindaco Paolo Lucchi e il Vescovo Douglas Regattieri, accompagnato dal parroco della Cattedrale don Giordano Amati. Emozionata e felice, la signora Renata ha spento le candeline e tagliato la torta con disinvoltura, da persona abituata a far tutto da sola.

Già, perché l'ultracentenaria si occupa ancora della sua casa in centro – la stessa in cui arrivò appena sposata dopo essere cresciuta nella zona di San Pietro -  in piena autonomia, con il solo supporto, per qualche ora al giorno, di un'assistente domiciliare e del  discreto ma attento controllo dei vicini. Una longevità straordinaria raggiunta in una forma invidiabile, nonostante la vita non le abbia risparmiato dure prove: è rimasta vedova quando era ancora giovane, e ha perso due figli in tenera età. Anche il terzogenito se n’è andato troppo presto. E nonostante tutto, Renata non si è mai persa d’animo. Dopo una vita passata a lavorare nella fornace di S. Egidio come operaia, una volta arrivata all’età della pensione non ha potuto godersi il meritato riposo, ma è stata costretta a cercare nuovamente impiego come colf per arrotondare il magro assegno percepito.

Particolarmente vivi i suoi ricordi del tempo di guerra -  la fame, la miseria, le continue corse al rifugio antiaereo sotto la rocca – e, in particolare, di quando fu assoldata per lavare gli indumenti dei militari inglesi. “Mi ero offerta come volontaria – racconta -, con la speranza di portare a casa un po’ di sapone, perché io non ne avevo neanche l’ombra. Terminato il primo incarico il capitano, mi chiese quanto dovevo avere e io risposi che non volevo niente e che, se proprio voleva, poteva darmi qualcosa da mangiare per la mia famiglia. Il capitano mi rispose che mi avrebbe dato da mangiare, ma che voleva pagarmi. Così da quel giorno divenni la lavandaia degli inglesi e mi trasferii nelle cantine dell’ albergo Leon D’oro. E premurosamente, ogni volta che pranzavano e cenavano, il capitano veniva chiamarmi per portarmi di sopra a tavola con loro”.

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