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Cronaca

Morì in una zona di guerra sul Carso: Gattolino ricorda Paolo Zoffoli

La Messa sarà officiata all 11 su richiesta dei nipoti Anna e Tazio Zoffoli, Paolo e Giovanni Gabbanini, nella Chiesa di Gattolino, perché Paolo Zoffoli era di Gattolino, dove viveva coltivando il suo podere con la moglie Norina Minotti

Domenica , durante la santa Messa, alla presenza di parenti e autorità cittadine, dopo un lungo oblio, verrà ricordato un personaggio scomparso esattamente cento anni fa, nel 1917, Paolo Zoffoli, del 254 Reggimento di Fanteria, morto il 22 settembre 1917 a 35 anni, uno dei tanti giovani falciati dal primo grande conflitto mondiale, che ora riposa nel sacrario di Oslavia nei pressi di Gorizia. La messa sarà officiata all 11 su richiesta dei nipoti Anna e Tazio Zoffoli, Paolo e Giovanni Gabbanini, nella Chiesa di Gattolino, perché Paolo Zoffoli era di Gattolino, dove viveva coltivando il suo podere con la moglie Norina Minotti, che gli sopravviverà di pochi anni lasciando tre bambini piccoli, Guerrino, Rosa e Lina, dopo di che su questa breve e tragica vicenda umana scenderà per sempre il silenzio. Di lui, come di altri soldati-contadini, in assenza di documenti o testimonianze dirette che ci facciano capire come vivessero, cosa pensassero questi “umili” protagonisti della guerra, a differenza delle classi borghesi loquaci per tradizione, non si saprà più nulla, spesso neppure che aspetto avessero. Così ai nipoti di Paolo Zoffoli  non è rimasta che l’amarezza, il rimpianto, ma anche una sorta di venerazione per questo nonno eroe, anche se ignoto.

Finchè nel 2000 succede un fatto nuovo, quasi una svolta che rende giustizia a questi martiri dimenticati, spesso analfabeti o semianalfabeti che per scrivere si affidavano a qualcuno che leggeva e scriveva per loro. In Malatestiana si inaugura una mostra documentaria fatta di lettere, cartoline, fotografie, dati biografici dei tanti soldati cesenati morti in guerra, che a distanza di 80 anni, riproponeva l’archivio raccolto con devozione da Dino Bazzocchi, direttore della Malatestiana fino al 1920, vero tutore delle memorie collettive, compito che oltretutto, visto sul piano etico-politico, come ebbe a scrivere Tullio De Mauro in occasione della mostra, segnava “ una progressiva maturazione della coscienza della reale uguaglianza degli esseri umani”. Del nonno eroe i nipoti scoprono così un ritratto in divisa, fatto da seduto, con i baffi a manubrio, le spalle dritte, forti, gli occhi dall’espressione sicura e indomabile del contadino-soldato e alcune lettere, di cui tre figurano nella raccolta comune, dove Paolo Zoffoli con un linguaggio semplice, essenziale, legato all’oralità come spesso nella cultura popolare ci conduce nel mondo dei suoi affetti.

Nella prima lettera, scritta alla moglie il 21.10.1915 mentre è in un ospedale, ferito, esprime una certa ansia per il ritardo nella corrispondenza, ritardo che non gli consente di avere notizie della casa e del lavoro nei campi, dalla semina, alla salute del vitello, poi dei suoi figli,  infine un fiume di saluti ai tanti parenti che nomina uno per uno, quindi conclude un’espressione di uso comune, “ora basta”, che egli usa al posto del punto fermo. Le altre due sono scritte nel 1917, una in aprile, l’ultima il 9 luglio. In entrambe assicura di stare bene, in buona salute, mentre il corpo centrale è ancora una volta occupato dalla richiesta di notizie sul lavoro dei campi, degli animali, dal tacchino alla somara, ai vitelli da svezzare, ma nessuna parola sulla guerra che egli sta combattendo, nè sulla località da cui scrive, tranne un breve accenno al fatto che ora si trova “sopra a delle grande montagne coperte di neve” infine, come quasi tutti i soldati, esprime la speranza “di andare a riuscire bene” o come nell’ultima lettera, “e intanto chissà che non venga la pace sempre speranza e coraggio”.

Sicuramente i suoi pensieri erano impegnati prevalentemente dal mondo degli affetti famigliari più che dalla guerra che tentava di rimuovere, perchè, come dicono gli studiosi, per questi uomini semplici, parlare di patria e dei destini della patria non ha alcun significato, perchè il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa. Eppure a ben vedere come non avvertire una certa reticenza, un non voler dire, o non poter dire, quasi che il soldato nell’atto in cui prendeva in mano una penna per scrivere avvertisse la presenza di qualche controllo, un freno, che lo portava a rimuovere la parola guerra con tutte le sofferenze, le morti, gli invalidi che essa produsse, preferendo parlare d’altro, affermando anzi di stare bene in salute, ricorrendo a formule stereotipate, che si ritrovano identiche in tutte queste lettere. Insomma si capisce che le lettere erano sottoposte alla censura, proprio quella censura che Cadorna fin dal maggio del 1915 impose per legge e che egli stesso non si fece scrupolo di adoperare quando si trovò a  riferire alla nazione il disastro di Caporetto. E poi: di quali montagne sta parlando, del Monte Nero, della Bainsizza, del Sabotino o di Monte San Michele?

Di certo si sa che il nostro soldato, nel 16 e nel 17 le battaglie sull’Isonzo, questo fiume che da sempre, fin dai tempi di Teodorico, dei Turchi o dello stesso Napoleone, aveva segnato il confine naturale per lanciarsi verso le fertili pianure del Veneto oppure per puntare verso Lubiana, che era il vero obiettivo di Cadorna, nel 15, all’inizio della guerra. Che le battaglie su questo fiume furono ben 12, che a parte la zona del Trentino, è attorno a questo fiume, tra Gorizia e i suoi monti e gli altipiani, che si articola il vero teatro di guerra, in un continuo avanzare e retrocedere dove i nostri fanti, artiglieri, bersaglieri contadini si batterono come leoni, lanciandosi nei corpo a corpo, con le loro berette e le baionette, affrontando i fili spinati dapprima a mani nude, poi con le “bombarde”, deviando il corso dell’Isonzo per diminuirne la portata e meglio attraversarlo, mettendo in seria difficoltà l’esercito austriaco, che si vide costretto a chiedere l’aiuto dei tedeschi scesi il 25 agosto 1917 con 7 divisioni ben equipaggiate oltre che con armi moderne, anche con gas tossici come il fosgene in grado di bruciare in pochi secondi il tessuto polmonare. Che forse, con ogni probabilità, Zoffoli cadde proprio nell’undicesima battaglia sull’Isonzo, quella che si combattè dal 17 agosto al 15 settembre per la conquista della Bainsizza e di Monte Santo, perché nella dodicesima, ovvero Caporetto del 24 novembre, non c’era già più.       

Così si conclude la vicenda terrena di Paolo Zoffoli nato a Gattolino nel 1882 e morto nel 1917 “per ferite riportate in combattimento”, e sepolto a Oslavia, Friuli; non così per i suoi figli e nipoti perché per loro quella morte non è mai stato un capitolo chiuso, anzi ne apriva tanti altri, dove sicuramente hanno posto il dolore, l’amarezza, ma anche la sofferenza per il fatto di  non avere una tomba vicina dove piangerlo, al punto da spingerli a maturare l’intenzione di scrivere al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e cioè a chi “detiene il potere”, per chiedere di “aiutarli a sollevare il cadavere” di un nonno tanto amato, per riaverlo con loro a Cesena nella tomba di famiglia. Una proposta forse assurda dopo tanto tempo, impossibile, irragionevole, di cui forse vergognarsi ma tanto umana se pensiamo al mito di Antigone e alle parole di monito che rivolge a Creonte: “non è una vergogna onorare i consanguinei”.

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