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Cronaca

C'era una volta Gigi Lucchi, per 15 anni sindaco quando Cesena stava cambiando volto

E' stato uno dei pochi sindaci in Italia a essere intervistato dal New York Times. Anzi, conquistò la prima pagina del giornale oltreoceano parlando di riformismo

Partigiano, politico e sindaco. Forse ai giovani dirà poco il nome di Leopoldo Lucchi detto "Gigi" ma se vivono nella Cesena di oggi, coi bus che servono tutta la città, i servizi per l'infanzia che funzionano, con la possibilità di frequentare l'università senza spostarsi, con la raccolta dei rifiuti e le case popolari, lo devono anche lui, sindaco di Cesena del Pci dal 1970 al 1985 quando Cesena e l'Italia stavano cambiando volto. Quindici anni che sono coincisi con un profondo mutamento della città. 

A parlare della figura di Leopoldo Lucchi e di ciò che ha rappresentato per Cesena sono stati Elide Urbini e Orio Teodorani, due ex assessori nella sua ultima giunta, in un libro dal titolo "Leopoldo Lucchi, "Gigi". Il partigiano, il politico, il sindaco" (edito da Società Editrice Il Ponte Vecchio), che verrà presentato, in occasione della celebrazione dell'anniversario della Festa della Liberazione, sabato  alle 17 presso la sala del Consiglio Comunale di Cesena in piazza del Popolo. A discuterne con gli autori saranno il sindaco Paolo Lucchi e gli ex primi cittadini Gabrio Casadei Lucchi, Piero Gallina, Edoardo Preger, Giordano Conti. 

Il libro, di 430 pagine, con oltre 400 foto e documenti storici di grande importanza, mentre racconta la storia privata e pubblica di Leopoldo Lucchi racconta anche la storia di Cesena e dei suoi abitanti. E' uno spaccato dei momenti cruciali della città, è memoria storica e testimonianza di quanto accaduto in quasi 60 anni di storia cittadina. 
Leopoldo Lucchi nacque nel 1923 da una famiglia povera, respirò subito l'aria antifascista nella bottega del barbiere dove andava a lavorare a 9 anni e poi in pasticceria, fino a decidere di entrare nel gruppo di resistenza partigiana. 

Partigiano Gim, come veniva chiamato Lucchi, si confrontò anche con la morte durante uno scontro a fuoco con i tedeschi sopra Pieve di Rivoschio e, trovandosi davanti a uno di loro, fu costretto a sparare per avere salva la vita. 
Quando finì la guerra divenne guardia notturna in una Cesena che, sotto il primo sindaco Sigfrido Sozzi, non era ancora sicura e tranquilla. Da capo della vigilanza notturna e, grazie al passato di artigiano (barbiere e pasticcere), gli venne affidato il compito di organizzare l'associazione degli artigiani e contemporaneamente entrare a far parte attiva dell'Anpi. Ma da sempre a lui entusiasmava la vita politica, e così divenne componente fondamentale del Pci.

Filosovietico, prese male la posizione di Berlinguer quando disse che preferiva l'ombrello della Nato al Patto di Varsavia. Col suo metro e 58 di altezza, era un personaggio autentico, rustico, a tratti sarcastico. Anche in consiglio comunale, dove ha trascorso 14 anni da consigliere comunale di minoranza col Pci quando al governo c'era il sindaco repubblicano Antonio Manuzzi e 15 anni da sindaco, amava fare battute e spesso, parlando in dialetto, riusciva a centrare il punto della questione molto meglio di altri. 

E' stato uno dei pochi sindaci in Italia a essere intervistato dal New York Times. Anzi, conquistò la prima pagina del giornale oltreoceano parlando di riformismo, qualità che, coi clamorosi risultati elettorali del 1975 in Emilia Romagna dovuti all'accordo tra Pci, Psi e Pri, emerse con forza anche agli occhi dei media internazionali. "Gigi" portò il corrispondente americano nei campi di carciofi e di alberi da frutto della campagna cesenate e poi al contadino intervistato fece raccontare com'erano cambiate le cose da quando era subentrata l'amministrazione comunista: "Ora - disse il contadino - posso recarmi in città più facilmente perché ci sono gli autobus e le tasse sono state ridotte".

Propaganda? Sì, sicuramente. Ma oltre a quella c'era anche un impegno vero e autentico nel migliorare la situazione di chi aveva sempre lavorato a testa bassa per un tozzo di pane, senza istruzione e senza riconoscimenti. In questo obiettivo Leopoldo Lucchi credeva fermamente. Non a caso il suo ultimo discorso di commiato dal Consiglio Comunale iniziava così: "Esco come sono entrato". E con queste quattro parole voleva esprimere tutto: sia il suo senso di onestà e trasparenza, rimasti intatti negli anni che aveva avuto a che fare col potere, che la quantità di denaro rimasta sempre uguale nelle sue tasche. Lucchi voleva dire che non si era arricchito e non aveva perso la testa per via del potere.

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