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Redazione

“Caro” canone

vignetta-tessarini-13-02-2012In tempi di crisi economica, come non parlare di tasse e cogliere l’occasione per fare una riflessione? Prendo quindi spunto da un commento lasciato da un lettore al post del 19 dicembre relativamente al canone RAI, “forse la tassa più odiata dagli italiani”.
Facciamo innanzitutto chiarezza partendo dalla terminologia utilizzata. Sebbene ci venga ricordato continuamente di “rinnovare l’abbonamento”, è opportuno precisare che non si tratta di un abbonamento analogo a quello che utilizziamo per spostarci con i mezzi pubblici, per assistere alle partite o per ricevere via posta il giornale.

Il canone RAI è un’imposta di detenzione di un apparecchio radiotelevisivo, come sancito dieci anni fa dalla Corte Costituzionale (Sentenza del 26 giugno 2002, n. 284), che riprese i termini della prima legge sulla “Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni” risalente al lontano 1938 (R.D.L. 21 febbraio 1938, n.246). Un straordinario esempio, quest’ultima, di lungimiranza giuridica in quanto si decise che “chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento”. Altri tempi.

Eppure, applicato alla lettera, anche coloro che oggi non possiedono un televisore, ma solo uno smartphone o semplicemente un PC che sia on line, sarebbero obbligati a versare il canone. (Tranquillizziamo subito gli internauti in merito, poiché, non essendoci ancora “certezza giuridica”, la normativa è tuttora oggetto di interpretazione, per cui l’obbligo non sussiste). Pertanto, sebbene non si guardino i canali RAI o, per assurdo, si tenga la TV perennemente spenta, si tratta di una tassa che comunque va versata all’Erario. Punto e basta. Perché allora tanto astio verso questa tassa, evasa da oltre un contribuente su tre per un totale di 623 milioni di euro nel solo 2009 (la Repubblica, 19 gennaio 2012)?

Forse perché il telespettatore non trova differenze sostanziali tra i palinsesti delle reti private e quelli delle reti pubbliche oppure, più semplicemente, perché evaderla non implica una sanzione certa. Poco importa. Ciò che conta è che metterne in discussione l’equità, rifarsi alla scarsa qualità del servizio televisivo o appellarsi alle regole del libero mercato sono meri pretesti per risparmiare denaro, per venire meno ad un dovere del cittadino: pagare le tasse.
Il canone RAI, come tutte le tasse, è ingiusto ma necessario. Di imposte, di accise, di bolli ne paghiamo ogni giorno, solo che non le vediamo perché sono comprese nel costo finale (del carburante, del latte, della manodopera, del servizio usufruito, ecc).

Nessuna di queste gabelle è giustificabile in sé e per sé! Però sappiamo che servono per assicurare a tutti servizi assistenziali, sanitari, di sicurezza, ecc. Certo, la qualità dei servizi pubblici in Italia lascia alquanto a desiderare, le tasse aumentano ogni anno e si tagliano i finanziamenti alla Ricerca, alle famiglie e alle imprese, ma questo è il prezzo che pagheremo finché non supereremo quella “sindrome dell’arretratezza socio-culturale” teorizzata da Carlo Tullio-Altan e sulla quale si sta ripetutamente soffermando, seppur con accenti diversi, il Presidente del Consiglio Monti nelle ultime settimane. Prepariamoci quindi a quello che sarà il vero tormentone di qui alle prossime elezioni politiche: il cambiamento culturale.

Siamo tanto smemorati quanto ineluttabilmente aggrappati ad un passato che non vogliamo che passi; allo stesso tempo, prendiamo a pretesto qualunque cosa pur di venire meno alle responsabilità ritenute normali in altri paesi europei. Per una volta tanto, quindi, smettiamola di scaricare l’onere sul Governo e cominciamo con il pagare sempre questo “caro” canone.

“Caro” canone

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