Anche la parrocchia di Tornano in festa. La storia raccontata da don Daniele Bosi
Domenica anche la parrocchia di Tornano sarà in festa. Dopo la messa delle 17 seguirà un momento di festeggiamenti davanti alla chiesa, con la semplicità e la genuinità di sempre.
La storia raccontata da don Daniele Bosi
Se quel piccolo torrente che nasce dal monte Aquilone di Perticara, e scorre alle falde dell’antico e diroccato castello di Tornano, potesse con le sue acque chiare, fresche, scintillanti ai raggi del sole, ridire le vicende del passato, chissà quale elenco di eventi verrebbe alla luce! Non tutto spazza l’ala dei tempi, anche le rovine… Eppure qualche cosa qui è rimasto. Chi avrà recato a Tornano, per primo, il messaggio di Cristo? Senza dubbio in questa località riverbera la luce di quel faro che è il trono viciniano di Sarsina. Sappiamo che altri castelli fulgidi brillavano nell’orizzonte montefeltrano: ma Tornano, per la sua ubicazione, e per le sue attinenze alla Romagna era e rimane territorio dell’antica Diocesi di Sarsina. Per coronare di maggior decoro questo luogo, che si adagia sopra un giogo dell’Appennino, contornato da prati verdeggianti, da seminati ricchi mi messi, allietato da viti, da piante fruttifere e da querceti, da faggi, da aceri, da pioppi, che vede a suo fianco elevarsi, quale gigante, il Monte Aquilone, come un baluardo, vorrei pensare che le origini del castello risalissero all’ottocento. Il castello, circondato da mura di grosso spessore, con fossato, ponte levatoio, torri, e nell’interno vi fossero abitazioni, cortili, una chiesetta, e fosse come un paesello ben difeso dalle scorrerie e dagli assalti nemici. Gli imperatori di Oriente, rappresentati dagli Esarchi di Ravenna, fino al 755 avevano il dominio in questo territorio. Dopo il 953 tutto va a finire allo Stato della Chiesa. Alla dominazione della Santa Sede subentra quella dei Malatesta, quando nel 1433 Sigismondo, re di Ungheria, coronato imperatori dei Romani, passando da Rimini viene accolto sotto ricco baldacchino, dal Vescovo, da Giovanni Malatesta, da Jacopo Carpegna, dal conte di Piagnano oriundi del Montefeltro. In tale occasione il re Sigismondo concede, in dominio, al ricordato Giovanni Malatesta i castelli di Tornano e di Serra.
Nel 1748 i detti castelli tornano alle dipendenze della Chiesa, finchè nel 1860 rientrano a far parte del Regno D’Italia. La pieve primitiva era fuori e distante dal fortilizio, ciò si conferma dal fatto che sopra i fondamenti del demolito edificio ora è stata costruita una casa colonica di un fondo rustico, appartenente al beneficio parrocchiale di Tornano, che si denomina “Pieve” ancor oggi. L’attuale chiesa, forse chiesa dell’antico fortilizio, si eleva nella località del diroccato castello, in gran parte trasformato in civile abitazione. Tutto il borgo ha un suo fascino che rieccheggia ad un sapore antico, a panorami incantati, a manciate di casette che si intravedono qua e là, fintanto a scrutare le città sottostanti e il mare, nei giorni di maggior visibilità. Nella pieve esistono tre altari, ci sono diversi oggetti di pregio e il fonte Battesimale, che stranamente si trova nella sacrestia. Una particolarità che penso esista solo a Tornano. Poco distante dalla pieve esiste la canonica costruita in sasso, ora venduta a privati e restaurata.
L’ultimo parroco residente fu don Elio Masi, ancora ricordato dalla popolazione perché faceva cantare e organizzava le commedie, che rimase parroco dal 1954 al 1961. Ancor giovane, visto il venir meno della popolazione, ritornò a Pennabilli lasciando la parrocchia al parroco di Serra, don Giuseppe Tosi. Non aveva più senso un solo parroco, tutto per Tornano, vista la scarsità della popolazione. Nel campanile un campana stupenda del 1353, di grosse dimensioni per l’epoca, del maestro Jacobus di Sassoferrato, dal suono crudo e carico di secoli. La pala d’altare, che raffigurava Sant’Ilario con lì inginocchiato un Malatesta, opera del ‘500 – ‘600, rammentano i parrocchiani, è stata dispersa: una di quelle ferite causate dalla vendita incontrollata compiuta negli ultimi decenni, una perdita che il tempo non saprà mai colmare.