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Redazione

La Repubblica terremotata nell’animo

Quanti italiani sanno cosa accadde il 2 giugno? Secondo un sondaggio condotto qualche anno fa da Renato Mannheimer, appena 1 su 3 (Corriere della Sera, 01/06/2008). Non solo per una “questione di ignoranza, ma anche, più in generale, di scarsa appartenenza”. Pochi anni prima, chitarra sottobraccio, Giorgio Gaber, uomo venuto dal popolo, lanciava il suo ultimo disco e si rivolgeva a Carlo Azeglio Ciampi cantando strofe amare dallo stesso tono: “Mi scusi Presidente / se arrivo all’impudenza / di dire che non sento / alcuna appartenenza. E tranne Garibaldi / e altri eroi gloriosi / non vedo alcun motivo / per esser orgogliosi”.

Proprio al Presidente che si spese più di tutti per restituire alla sua solennità la più importante festa laica della Nazione italiana (accantonata nel 1977 per ragioni di produttività), che nel 2004 definì: “… occasione anche per ricordare l’abnegazione, il coraggio di tutti coloro che, in armi, difesero, sino ad immolarsi, la Patria e diedero un determinante contributo per far nascere un’Italia libera, democratica, basata su fondamentali valori di dignità, di giustizia e di solidarietà”.

Il 2 giugno 1946 è una data storica sia perché l’Italia diventa finalmente un paese libero per volontà popolare, sia perché per la prima volta le donne possono votare. È il trionfo della democrazia! Quindi, perché non onorarla ogni anno?

La polemica scoppiata la settimana scorsa per fare ciò che per la maggior parte degli italiani è solo “una parata militare”, in concomitanza delle sofferenze patite dagli sfollati emiliani, non è che la naturale conseguenza della mancanza nel cittadino medio di un senso di appartenenza, di una causa comune. Ecco perché Giorgio Napolitano, tra le ragioni della necessità di commemorare il 2 giugno anche quest’anno, ha rimarcato il concetto di “interesse generale”. Parafrasi di ciò che Alcide De Gasperi chiamava “anima della Nazione”.

Idealismo? No, al contrario: concreto e responsabile atteggiamento per tenere in vita quei pochi, impolverati valori repubblicani che consentono alla macchina democratica di funzionare correttamente e di tenerci uniti. Non c’è scelta: o si fatica ogni giorno per mantenere viva nelle memorie il senso che ha vivere in una repubblica oppure ci si dirige verso il baratro, al richiamo delle sirene populiste.

È vero, nel maggio del 1976 il Ministro della Difesa Arnaldo Forlani rinviò la Festa della Repubblica, ma “per far sì che i militari e i mezzi di stanza al nord siano utilizzati per aiutare i terremotati”, in un periodo storico in cui si scavava solo con pale e piccozze. Inoltre, come ha detto pochi giorni fa il diretto interessato “in quell’occasione sì, avevamo deciso di fermare le parate del 2 giugno. Ma erano morte migliaia di persone, fu un disastro immane”. Siamo un popolo straordinario, in ogni senso. Anomalo, miope, civicamente immaturo.

Propenso a ragionare più con la pancia che non con la testa. Perché? Perché siamo senza identità. Perché il terremoto ce l’abbiamo dentro, ogni giorno. Nell’animo. Proviamo allora a fare un piccolo sforzo e guardare cosa accade altrove, oltre i nostri steccati mentali. Il 22 giugno 1972 l'uragano Agnes, uno dei più devastanti nella storia degli USA, scaricò tutta la sua forza sullo Stato di New York e sulla Pennsylvania, provocando 122 morti. Ma il 4 luglio i carri allegorici sfilarono comunque lungo le strade principali delle città americane, tra palloncini colorati e inno nazionale, sicuri di incontrare il consenso di un popolo unito ed orgoglioso. E così fu.
 
 

La Repubblica terremotata nell’animo

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